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Watt (1)

Samuel Beckett

Genere: Classici moderni,

Editore: Sugar

Anno: 1967

Lingua: Italiano

Rilegatura: Rigida

Pagine: 264 Pagine

Trama

Watt è il terzo romanzo di Samuel Beckett (dopo Dream of Fair to Middling Women e Murphy), nonché l'ultimo scritto in inglese. Vi si narra la storia di un uomo di mezza età e di «cultura universitaria» che va a servire nella casa di un certo signor Knott (attenzione alle omofonie dell'onomastica beckettiana: Watt si pronuncia come what e Knott come not, se non nought, zero). Al suo arrivo il servo che svolge mansioni al piano terra si trasferisce al primo piano (dove ci si occupa direttamente del signor Knott); quello del primo piano se ne va. E di questo andare e venire si nutrirà il «destino» di Watt. Il romanzo è dunque il resoconto di questo strano «servizio» così simile alla vita: si viene, si cerca di capire il perché e dove si è venuti, si ha la sensazione di raggiungere una qualche meta, poi si va via. Le vicende semplici ed esemplari di Watt nella casa del signor Knott (una casa verosimilmente costruita e arredata dai costruttori e dagli arredatori di Kafka) vengono però narrate da Beckett con un umorismo acre che ha pochi eguali nella storia della letteratura (forse solo il comico sadismo di Sterne può essere chiamato in soccorso). Watt, è stato notato, si comporta con l'inconoscibile casa del signor Knott (e con il mutevole, silenzioso, intangibile signor Knott) come un positivista logico che, con le sue brave griglie di pensiero, sbatte il muso contro la mutevolezza dell'essere. Ma la sua paradossale volontà logocentrita, nella generale assenza di motivazioni per ogni accadimento, per ogni scelta apparente, per ogni attimo di vita, si trasformerà ben presto in un'autentica «cognizione del dolore».
Scritto durante la guerra, in un paesino delle Alpi dove Beckett si era rifugiato per sfuggire alla Gestapo, Watt è un romanzo straordinario nel quale, senza che la guerra venga mai nominata, si delinea lucidamente non solo il fallimento del grande mito estetico joyciano di dare voce al «chaosmos», ma anche e soprattutto il lascito di sfiducia nelle «ragioni della ragione», che quella stessa guerra consegnò a tutti i sopravvissuti.
Per il testo di cerniera fra la ricchezza linguistica del primo Beckett e il delirio verbale scarnificato del Beckett successivo, era necessario realizzare una traduzione che mantenesse la felice compresenza (non più ripetuta dallo scrittore) di questa doppia tonalità. Duro compito affrontato con singolari capacità empatiche da Gabriele Frasca, che oltretutto riesce funambolicamente a recuperare i momenti di comicità più intraducibile dell'originale.

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