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Ave Virgilio: Carme (0)

Thomas Bernhard

Editore: Guanda

Anno: 2013

Lingua: Italiano

Rilegatura: Brossura

Pagine: 85 Pagine

Isbn 10: 8823502721

Isbn 13: 9788823502727

Trama

«Col tanfo di caseificio, col / chiasso degli zoccoli / io sono, ingiustificatamente, / la polvere delle ossa dei miei / indebitati vicini...» Composto verso il 1960, pubblicato nel 1981, e definito dallo stesso Thomas Bernhard come un testo di assoluta pregnanza all’interno della sua produzione narrativa, Ave Virgilio rappresenta l’esito di due tendenze stilistiche apparentemente contraddittorie. Riflessione teorica e concrezione corporea, teologia negativa e ossessione materica, proiezione simbolica e décor regionalistico convergono nella stesura di un manufatto nero ed oracolare. Infatti, benché il libro rechi le tracce di due soggiorni all’estero (Gran Bretagna e Italia), il suo vero cuore sta nel lacerante sentimento di attrazione e odio che l’autore nutre verso la propria terra: «Il mio sapere ce l’ho / dai solchi nei campi di patate, / dall’oscurità del porcile / ho appreso cielo e terra, / nel rotolio dei mucchi di mele ottobrine / ho il mio salmo incessante...»<br />Osti, parroci, sindaci, mastri birrai, arcivescovi, scrivani comunali, contadini e sposi, figure dell’autorità o del martirio (il Padre contro il Figlio) insieme a baluginanti santi intercessori quali Catullo, Dante, Pascal, o Virgilio, compongono il quadro di un inferno bucolico fatto di sangue, cunei nella carne, mattatoi. Lo si vede ad esempio nell’allucinato Canto del figlio del macellaio: «Tu smembri abilmente il bianco / corpo, / tu fai uso improprio degli strumenti del mio pianto, / affondi entrambi i coltelli / nel cranio ottobrino...» Al fondo di tanti sussulti arde una foga di profanazione, e dunque un senso del sacro, atroce, intollerabile, che culmina in immagini violentemente espressionistiche: «Col mio coltello ben affilato / incisi la tua bellezza / nella cotica del cielo».<br />In questo «apostolato della carne affumicata», la sofferenza del torturato si tramuta in accensione lirica e patetica, come in certe strazianti invocazioni: «Ottobre, compare mio, mio vile padre / alcool terribile / che sulle pareti dell’intestino mi scrive / ’pena, pena, pena, pena’», o ancora: «Inverno, mi vergognavo della mia lingua, / e chiamavo, chiamavo». Quello della lingua corrisponde, in effetti, a un tema centrale della raccolta. Profeta dei deformi, l’io narrante erige il suo carme sulle fondamenta della prosa, tra nomi e contronomi. Così, la sua voce del lutto attraversa la realtà creaturale in tutto il suo orrore, fino a produrre, nel cerchio di poche pagine, un’esperienza poetica tra le più originali e convulse del secondo Novecento.<br />Valerio Magrelli

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